Architettura

QUADERNO DI ARCHITETTURA LOZZO DI CADORE


Realizzato dalla Comunità Montana "Centro Cadore"
a cura di DEPLIART - Associazione Culturale 1998 - Padova
Fotocomposizione e stampa: Poligrafica Antenore Srl - Padova


PRESENTAZIONE
"Non ardisca Persona alcuna in alcuna maniera accusar ovvero palesar li secreti del Comune di Lozzo ad alcun Forastiere, sotto pena di venti soldi de piccoli per cadauno, e per cadauna volta".

Il Laudo dell'anno 1444, art.101, con la sua durezza sanzionatoria ritrae la comunità di Lozzo chiusa a riccio nei confronti del potenziale nemico, lo straniero. Un quadretto da Far West dove senza credenziali non si può neppure entrare al saloon. Ma la lettura completa delle antiche norme cancella questa immagine bozzettistica e fornisce le motivazioni di tali comportamenti, evocando con forza le condizioni di vita di una società rurale insediata in un territorio difficile, povero di terreni coltivabili, stretto tra il Rin profondamente incassato, le alture incombenti del Revis e di Pian dei Buoi, soggetto a frequenti frane. Dimensione pubblica e privata sono strettamente intrecciate, regolate da un computo rigoroso di dare e avere.

Fondamentale per capire è il concetto di piovego, il lavoro di interesse comune imposto dalla Règola e svolto a turno da ciascuno, marigo compreso. Il forestiero, essendo appunto fuori da questo vincolo di reciprocità, è messo al bando con decisione "di non accettar Forastieri per vicini" presa nel 1710 e ratificata il 28 dicembre 1729. Solo nel 1788 si allude alle tasse come forma abbreviata di accoglienza civile; l'assistenza umanitaria essendo svolta dall'istituzione religiosa, la Confraternita dei Battuti, che in contrada Brodevin gestiva una sorta di ospedale aperto anche ai pellegrini. Dai laudi emerge anche una società fondata sull'assunzione di responsabilità dei singoli, per cui "chi sbaglia, paga", sul controllo del corretto operare per il bene comune con riguardo tutto particolare per le proprietà (boschi e pascoli) della règola, sulla assidua e ordinata presenza alle faule (assemblee). Una democrazia diretta che rivela qui il suo volto più severo, quello cioè dell'impegno personale che non può essere né eluso né delegato.

URBANISTICA

L' organizzazione urbanistica di Lozzo mantiene per lo più un'impronta medioevale, riconoscibile nell' aggregazione con due dominanti (S.Lorenzo/Medavila, S. Rocco/Pròu), nell'integrazione tra costruito e terreni coltivati, nell'adattamento alla morfologia del territorio con forte pendenza, nello schema viario a fuso (strade che si biforcano e si congiungono all'estremità opposta), negli slarghi a forma di X o Y: tutto all'insegna della funzionalità lontano da ogni astrazione. Una presenza viva e determinante era il rio Rin con le sue derivazioni, ora in gran parte interrate: un sistema di ruscelli che solcavano capricciosamente la parte occidentale dell'abitato. Laudo 84: "...che nessuna Persona ardisca portar fuoco de notte dopo sonata l'Ave Maria ..." o laudo 90: "...tener lino nella Cosina da Fuoco a seccar, sotto pena... ". Anche a Lozzo l'uso del fuoco era severamente regolato per evitare gli incendi. Impresa quasi disperata se il corso del XIX secolo è scandito da una serie impressionante di roghi che di volta in volta distrussero borgata Stèfin (1833), Pròu (1847), Medavila (1867), borgata Zanella (1876). Poi, ironia degli eventi, le alluvioni del 1882 e del 1966.

CHIESA PARROCCHIALE

La parrocchiale dedicata alla MADONNA DEL ROSARIO (1970-1973) traduce in forme architettoniche la riforma liturgica voluta dal Concilio ecumenico Vaticano il (1962-1965), la cui portata innovativa non era ancora pienamente recepita. I cambiamenti indotti furono profondi e coinvolsero il modo di vivere e concepire la religiosità, i significati e i modi delle azioni liturgiche, i luoghi e gli spazi delle celebrazioni. Il progetto esprime la volontà di dialogo tra aula - opere parrocchiali e contesto urbano; questa comunicazione tuttavia non si realizza e la chiesa soffre di scarsa visibilità, immersa com'è tra le case senza la mediazione di un sagrato o di uno spazio esterno dotato di forma. L'idea forte si esprime nella forma della copertura costituita da una tessitura di elementi ad arco rovesciato sorretti da travi: una successione di vele, immagine della tenda d'Israele in viaggio nel deserto alla ricerca della terra promessa. Il cammino verso la Gerusalemme celeste è rappresentato dalla rampa che conduce a un piano attico; sotto si spalanca lo spazio liturgico che attende di essere foggiato dall'assemblea dei fedeli, soggetto celebrante, che di volta in volta lo riempie di significato con la molteplicità dei linguaggi: parole, silenzio, gesto, movimento, musica, canto. L'altare è il centro focale dell'aula, di cui fonti di diversa luce (tagli griglie, pareti trasparenti) individuano punti significativi. Le Sacre Specie sono custodite in un'area più raccolta, schermata da un basso pannello decorato a mosaico. Il tema del banchetto eucaristico è sviluppato in quattro scene attinte all'antico e nuovo testamento e al miracolo di Bolsena. Vi domina la figura umana segnata dalla fatica (grandi mani nodose, volti solcati da rughe) e compressa in scorci arditi. Contorni incisi e tortuosi, disegno che origina movimento, colori vivaci usati anche in modo non naturalistico (riflessi sui volti, fondo dorato), spazialità non prospettica sono strumenti espressivi di forte drammaticità. Innovativa anche la Via Crucis: un nastro lungo 3,5 metri di formelle in terracotta assemblate in modo che i giunti coincidano con i profili della narrazione. Il cammino devozionale è raccontato in forme stilizzate e filologicamente rigorose (Cristo trascina solo il patibulum - braccio orizzontale della croce) e si conclude con la Resurrezione. Paesaggio collinare, gamma cromatica essenziale (terracotta, azzurro, bianco, giallo, bruni) e modulata sul racconto (da tonalità più chiare a quelle luttuose), ritmo ora lento ora serrato, narrazione ristretta ai soli personaggi principali, conferiscono all'opera un misticismo rarefatto e dolente che affissa lo sguardo oltre la morte evocata con pudore dalla nuda crux - braccio verticale della croce. La statua della Madonna del Rosario proveniente da S. Lorenzo, salvata dall'incendio del 1867, è insieme opera d'artista e oggetto di profondo affetto popolare. La sua presenza antiquaria può sorprendere nel contesto moderno della chiesa a lei dedicata, ma assume valore di simbolo della continuità con il passato spogliato di ciò che è caduco (rito, forme, sensibilità) e ricondotto all'essenzialità della fede.

VECCHIA PARROCCHIALE

Come tutti gli edifici storici privati della propria funzione, S. LORENZO, la VECCHIA PARROCCHIALE, suscita un forte malessere solo parzialmente giustificato dallo stato di abbandono. In realtà le ragioni hanno ben altro spessore e attengono alla problematica di riqualificazione e riutilizzo del patrimonio architettonico con cui la società contemporanea si misura, investendo in energie economiche ed inventive. Così in tutta Europa si assiste alla trasformazione di fabbriche in appartamenti, serbatoi idrici in uffici, chiese in teatri e spazi culturali, garages in ristoranti o piste di pattinaggio, scuole in centri artistici, stazioni ferroviarie in musei: profonde metamorfosi riflesso del momento storico e della generazione che esprime in tal modo la propria originalità. San Lorenzo vive dunque nella zona d'ombra "non più, non ancora" che precede il suo restauro/riconversione ed è certo che le decisioni al riguardo richiederanno coraggio, fantasia, denaro. L' edificio è opera dell'architetto bellunese Domenico De Min incaricato della progettazione nel 1732, che ideò una grande navata con presbiterio quadrato ampliato nel 1806 da Antonio Laguna di Lozzo. Elementi decorativi (paraste, capitelli compositi, cornicione) e planimetria rivelano un impianto settecentesco, anomalo tuttavia per il ritmo diseguale che lo caratterizza: dilatato a ovest (zona d'ingresso), contratto a est (innesto tra navata e presbiterio). A ciò concorrono anche le trasformazioni (rifacimento del tetto con minore pendenza, tempere della volta del coro al modo dei mosaici ravennati) conseguenti alla ricostruzione dopo l'incendio del 1867. Nelle pareti si aprono quattro nicchie ad arco poco profonde per accogliere altari in marmo degli inizi del Novecento. L'organo, qui collocato nel 1886, è strumento di notevoli qualità timbriche e buone condizioni di conservazione. S. Lorenzo fu sede anche della confraternita dei Battuti, antica associazione di laici diffusa in tutta Europa e documentata a Lozzo daI1388, costituita con intento penitenziale (diffondere il culto della Passione di Cristo anche attraverso l'autoflagellazione) e di assistenza ai poveri e agli ammalati. Il ricco inventario dei beni (XVI s.) testimonia l'attaccamento dei Lozzesi a tale istituzione e alla sua chiesa, nel tempo arricchita di arredi sacri anche di notevole valore, in gran parte perduti nel terribile incendio. Intatte invece sotto il pavimento della chiesa le antiche sepolture tra cui si nota la lastra tombale (1702) del sacerdote Gaspare De Mejo, primo curato del paese. Intorno a S. Lorenzo un muro delimita ancora la parte a valle della cortina (documentata dal 1226), dove per quasi un millennio, fino agli inizi dell'Ottocento, i Lozzesi ebbero sepoltura. Il recupero dunque dovrebbe riguardare l'intero complesso (chiesa, campanile, cortina), luogo denso di significato per la comunità religiosa e civile.

SANTUARIO DELLA MADONNA DI LORETO

 Poco discosto dall'abitato, sull'antica importante strada per Auronzo e Comelico, praticata fino agli inizi dell'Ottocento, sorge il SANTUARIO DELLA MADONNA DI LORETO (1658). Immersa nel verde della Vizza (bosco di sua dotazione,1660), la chiesetta è preceduta da un rustico e profondo porticato con robuste colonne lignee; un basso muro perimetrale delimita l'area, vasta più della chiesa stessa, un atrio coperto da un tetto a ripidi spioventi ad accogliere i fedeli , che a frotte accorrevano in pellegrinaggio anche dai paesi vicini. Il corpo principale (navata quadrata e abside pentagonale) è modellato nelle forme del gotico postumo frequente in tutta la zona e caratterizzato dal prevalente interesse per le coperture a volta con nervature che intrecciano stelle fantasiose. Sagrestia, altare laterale e corridoio di collegamento modificano anche a Ovest l'originario profilo. Tutto ciò che secoli di devozione popolare avevano raccolto per ornare la chiesetta (quadri votivi e non, candelieri lignei, angioletti portaceri e ornamentali colonne, balaustre), tutto, perfino il tabernacolo, è scomparso in una notte di fine maggio 1988. Nulla essendo stato documentato, impossibile qualsiasi recupero senza un evento miracoloso! Così l'interno denuncia la profanazione e l'incuria e offre l'aspetto desolato di un naufragio da cui si è salvato solo quanto saldamente ancorato (una bella trabeazione di legno) o troppo ingombrante per i ladri (altari e pale). Gli altari a portale sono in legno intagliato e dorato alla maniera del Comuzzo. Le pale d'altare (1910-20) contengono due immagini devozionali: l'infanzia di Maria e la tradizionale raffigurazione della Vergine avvolta nella dalmatica riccamente decorata secondo il modello venerato nella basilica di Loreto. Opere contrassegnate da semplicità di composizione, luminosità chiara e serena, leggiadria dei tratti e colori uniformemente stesi: una pittura condotta con tecnica sapiente e ispirata ai modi veneziani rinascimentali, in una concezione invalsa tra Ottocento e Novecento, dell' "arte che genera arte" alternativa ai contemporanei movimenti d'avanguardia. Se si pensa che poco prima (1886-1913 circa) un complesso pittorico di portata europea veniva realizzato a Loreto, costituendo un'antologia della pittura religiosa di impronta classicista, la commissione delle pale a Tomaso Da Rin (1838-1922) di Laggio può essere coincidenza fortuita ma anche segno di sguardi che superano i confini del borgo.

CHIESA DI SAN ROCCO

 Al limite settentrionale di Pròu spiccano le forme auliche del tempietto dedicato a S. Rocco, progettato da Giuseppe Segusini ed eretto nel 1857 nei pressi della chiesetta secentesca distrutta dall'incendio del 1847, La semplicità dell'impianto è solo apparente e un'analisi accurata rivela il gioco sottile di trasformazione della ideale pianta centrale quadrata con volta a crociera in pianta longitudinale rettangolare. L'effetto è ottenuto con l'aggiunta nella volumetria di due corpi voltati a botte caratterizzati da nicchie e con l'elaborazione sulla facciata di elementi d'angolo: paraste di larghezza diversa, la cui presenza determina specchi parietali di uguale ampiezza (m 5x5). L'altezza dell'edificio (m 8) è uguale alla lunghezza della navata; l'invaso è formato dalla sovrapposizione di un cubo e mezzo col raccordo del cornicione: un'architettura cerebrale fondata su rapporti numerici in grado però di conferire classica solennità alle piccole dimensioni. Due passi sul retro bastano però a scoprirne il volto rustico e l'ingegnoso trucco di un campanile a due facce: in muratura verso il paese, in legno a monte. Attribuita a Giovanni Battista Vicari (1815-1883), artista di Valle di Cadore, la pala d'altare interpreta il tema della sacra conversazione secondo modelli rinascimentali: una scena (Maria elevata in trono che regge il Bambino osservando i santi) vista dall'interno sullo sfondo di colline. Accuratezza di modellato e diffusa luminosità rivelano mano esperta e abilità accademica tesa alla sobrietà e correttezza formale più che all'espressione di sentimenti e atmosfere.

BORGATE PROU E MEDAVILA

 Un frammento di antica civiltà sopravvive a Pròu, dove le numerose case rurali parlano un dialetto architettonico fatto di perimetri irregolari, asimmetrie, integrazione tra spazi aperti e chiusi, assenza di facciata principale, prevalenza di funzionalità sull'estetica, profili sbilenchi, capacità di assorbire ampliamenti. Questa organicità, espressione del mondo che le ha costruite, è agli antipodi dei criteri del Rifabbrico che diede igiene e sicurezza, ma spense la carica vitalistica dell'architettura spontanea chiudendola nelle regole grammaticali e sintattiche del linguaggio codificato: modularità, simmetria, geometrismo, rigidezza, decoro, uniformità. Ma a Pròu il modello del rifabbrico si scontrò con il feroce attaccamento dei Lozzesi al proprio sedime perché, come spesso accade, le difficoltà cementano l'unione. E così le ordinate planimetrie si piegarono a forme impreviste e irregolari, presentando anomali angoli smussati, quasi che l'imponderabile avesse gettato un ponte tra due mondi con linguaggi totalmente diversi. Tra le case più antiche si riconosce CASA BARNABO' ora DE MElO BURIGHELA dall'impianto allungato, tetto bifalde con timpano aperto, scala interna e facciata intonacata con stipiti in pietra, caratteristici la finestra binata centrale e i gocciolatoi: tutti elementi propri delle dimore signorili; forma aggregazione con CASA DE MElO SIORTITA.

Casa ZANETTI

Uno degli esempi più insigni di architettura spontanea è CASA ZANETTI, proprietà della famiglia ininterrottamente per più di tre secoli. Costruita nella prima metà del XVII secolo, è giunta sostanzialmente intatta fino ai nostri giorni essendo scampata anche agli incendi di più rovinosi, la cui traccia rimane in un antico quadro della Madonna, bruciacchiato e consunto, esposto alla devozione popolare sul poggiolo verso Sud. L'edificio in solida muratura di: sasso intonacata ha forma allungata con ingresso centrale e scala interna di testa a disimpegno dei locali che vi si affacciano. I vani hanno forme quadrangolari con angoli non retti, dimensioni confortevoli e altezze che variano da metri 2,20 del secondo piano ai metri 2,60 del primo. A piano terra una stanza prospiciente l'orto si dice ospitasse una farmacia, della cui importanza sarebbe testimone il soffitto ligneo a cassettoni. La copertura è trifalde con timpano aperto, da cui s'intravede l'anello formato da due travi sovrapposte e incastrate a sostegno dei correnti: un metodo costruttivo raro in Cadore, più frequente in Ampezzo. Lo sporto lungo l'intero perimetro è accentuato e protegge i ballatoi lignei con balaustri piacevolmente sagomati che fasciano buona parte delle facciate. Essi svolgevano anche funzione di svincolo della circolazione; in tal modo la casa offriva possibilità di percorsi più liberi e articolati. Da segnalare inoltre gli stipiti di porte e finestre in pietra e legno. La struttura dell'edificio, il numero e le dimensioni dei locali, canna fumaria in muratura, le finiture, il comfort rapportato all'epoca testimoniano il prestigio della costruzione e le agiate condizioni economiche dei proprietari. Un suggestivo sottoportico la collega a CASA CALLIGARO PAULE dotata di una bella inferriata e un raro pavimento (filòstro) fatto di teste di tronchi lignei conficcati in terra e livellati.

ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE

 Lungo il Rin si insediarono attività che richiedevano lo sfruttamento dell'acqua; una segheria, dieci mulini, una fucina, opifici per la lavorazione della lana (filatura, tessitura e follatura) sono le voci più importanti delle attività industriali già presenti nelle "Anagrafi Venete" del 1766. A testimonianza del fervore di queste attività, esauritesi circa mezzo secolo fa, rimangono gli edifici, alcuni più antichi (mulini), altri più recenti, che nell'insieme costituiscono un'area archeologica industriale. Fondata nel 1926, la centralina idroelettrica della ditta F.lli Baldovin Caruli di Gaspare è rimasta viva e operante fino al 1998 grazie all'impegno dell'erede e attuale proprietario, il signorj Leo, fornitore di circa 240 famiglie di Lozzo. Se, stanchi di microchips e di tecnologie gelose dei loro circuiti, vogliamo osservare da vicino meccanismi che nulla nascondono dei propri ingranaggi, immergiamoci qui nel frastuono di ruote dentate, stantuffi, tubi perfettamente lucidi e oliati, dotati del fascino irresistibile delle cose antiche che vanno ancora. Anche l'artigianato era un tempo vario e articolato e in paese si poteva trovare di tutto un po': falegnami, muratori, lattonieri, squadratori di travi, chi intrecciava gerle, trapuntava siole, fabbricava zoccoli. La roggia del rio Rin è interessata da un progetto che la trasformerà in area museale di archeologia industriale, ripristinando tratti interrati del corso d'acqua, realizzando percorsi pedonali attrezzati, luoghi di sosta e spazi espositivi, sistemando il verde, restaurando e rimettendo in funzione un mulino con tecnologie e materiali ecocompatibili. L'intervento ha un orizzonte europeo, essendo collegato a quanto è in atto in Francia (St. Léonard de Noblat), Gran Bretagna (Bishop Waltham), Slovenia (Crensovci), coinvolti nel Progetto "Raffaello" finanziato dall'Unione Europea.

MODELLI DEL RIFABBRICO

 Dopo il terzo e più vasto incendio (notte del 15 settembre 1867), il Comune decise di ricostruire con nuovi criteri edilizi e urbanistici le case bruciate. Nel giro di poche settimane (22 ottobre) fu affidato l'incarico, presentato un piano completo corredato da una relazione finale (6 marzo 1868), approvato dal Genio Civile di Belluno (17 settembre). Il progetto dell'ingegnere civile Giovanni Battista Simeone Zanetti (1837 -1897), lozzese, era fondato su criteri di economicità., igiene, miglioramento della viabilità, sostenuti da un'analisi razionale del territorio. Prevedeva la costruzione di un asse stradale quasi coincidente con quello proposto nel 1852 dall'ingegnere Francesco Sandi e non ancora realizzato, e lo sviluppo dell'abitato sulle pendici orientali con la formazione di una nuova borgata, separata dal nucleo incendiato da un'area per "dividere l'abitato onde preservarlo possibilmente da nuovi disastri": Il futuro centro civico con una nuova parrocchiale, il municipio e la piazza. il piano era corredato dalle planimetrie di nove tipi di abitazione, quattro dei quali raccolsero il favore delle famiglie interessate, in tutto 129 unità abitative. Ma qualcosa non dovette funzionare se nel novembre dello stesso anno il Comune affidò un nuovo incarico all'ingegnere Osvaldo Palatini, che il 22 gennaio 1869 presentò un progetto che manteneva compatto il centro abitato sviluppandolo verso nord e sud, mentre l'ingegner Zanetti, nemo propheta in patria, si stabiliva a Montevideo, dove ebbe modo di valorizzare la sua professionalità come capo settore delle ferrovie uruguayane.

PROPOSTE NUOVE

 Forme contemporanee caratterizzano parte della zona industriale, dove è evidente la ricerca di conferire ai luoghi di lavoro valenza estetica e dignità architettonica. Nelle proporzioni e nel gioco pieno-vuoto echeggia talvolta casa Barnabò ora De Meio Burighela, scelta quale archetipo dall' architetto Lucio Boni per la sua facciata larga e compatta e il timpano aperto. Questi elementi della tradizione si coniugano con una tendenza classica per le planimetrie (forme quadrate, simmetria, semplicità d'impianto, modularità, equilibrio) e una sensibilità attenta all'uso dei materiali (blocchi di cemento e argilla colorata, cemento lavorato, vetro, ferro, legno, intonaci) assemblati con gusto grafico, che emerge anche dal dialogo tra linee rette e curve e dalla sovrapposizione di sistemi grigliati. Elementi che compaiono anche nell'intervento sul fronte Nord di CASA PELLEGRINI, destinata ad accogliere uffici comunali, sala polifunzionale e relativi servizi. Il linguaggio adottato è quello contemporaneo permeato dalle suggestioni dell'edificio storico: il corpo centrale d'ingresso (con aperture ad arco ed oculo ovale) diventa la scenografica entrata con volta trasparente, finestre ad oblò e scala che gioca con i dislivelli del terreno.

BENI SILVO-PASTORALI

 Come già detto e confermato dai numerosi toponimi che designano frane e smottamenti (boa, fraìna, frainèla, rnoiba), i Lozzesi hanno sempre dovuto misurarsi con l'instabilità geologica del territorio che richiede frequenti verifiche e ridefinizioni delle proprietà private, la cui entità dipende dalla presenza fisica in loco degli appositi termini, resi precari, anche in condizioni meno sfavorevoli, da eventi atmosferici, cicli vegetativi, azioni umane (abbandono dell'agricoltura e viceversa recupero agronomico). Tutto ciò si aggiunge ad una morfologia impervia con boschi lontani dall'abitato e pascoli in gran parte situati alle alte quote (1700-1900 metri s.l.m.) del Pian dei Buoi. Questi elementi spiegano forse la vocazione terziaria e artigianale dell'economia lozzese tra Ottocento e Novecento, unitamente all'ubicazione del Comune posto alla confluenza delle strade per Auronzo e l'Oltrepiave. Esperti agrimensori, commerci fiorenti e attive botteghe possono dunque esser interpretati come risposte alla sfida lanciata dalla natura che ieri (frana di Mizoi, 25 gennaio 1348) come oggi (frana del Revìs 1988) impone qui più che altrove attenzione e oculatezza. Se per il passato la corretta gestione del territorio si manifestava soprattutto con una politica tesa a evitare tagli rapinosi dei boschi, oggi si avvale di un approccio tecnico e scientifico in cui convergono consapevolezza dei complessi problemi ecologici e ricerca avanzata sulla protezione e conservazione della natura, come nel caso del nuovo piano di riassetto dei beni silvo-pastorali del comune (1994). Di grande impatto invece la bonifica (1988-1997) del Revìs, la montagna a forte componente gessosa che da sempre minacciava l'abitato e la statale. Il problema dell'erosione è stato risolto con un sistema di terrazzamenti alti 10-12 metri progressivamente arretrati e serviti da una carrozzabile. Tutta l'area è stata piantumata con essenze compatibili con terreni gessosi: Pinus silvestris e Larix decidua accompagnati da un sottobosco d'Erica carnea, le cui radici superficiali costituiscono una efficace rete d'imbrigliamento.

SOVERGNA - PIAN DEI BUOI

 Nel 1188 Lozzo entrò in esclusivo possesso del Pian dei Buoi, Sovergna nell' antico laudo, cedendo ad Auronzo il monte Lareto. Qui da metà giugno a metà settembre venivano portati all' alpeggio féde e armente e in agosto intere famiglie vi si trasferivano per falciare l'erba. Le numerose casere (de le Armente, Ciamviéi, Valdacéne, de le Féde, Confin) testimoniano l'ampiezza delle attività che nel 1884, quando fu istituita la prima latteria sociale, contavano su 563 bovini e 642 ovini. L'unica ancora attiva è la casera delle Armente, la più antica e vasta. Le altre sono abbandonate in rovina, ma le forti opposizioni (1980) contro la demolizione della casera delle Féde rivelano la volontà di molti lozzesi di conservare col manufatto anche la memoria di quanti vi avevano duramente vissuto e lavorato: i pastori costretti per secoli a condizioni di vita simili a quelle degli animali a loro affidati, dormendo spesso nei làndre (grotte o ripari rocciosi) ricoperti dalla pèl (pelle di capra) o sotto grandi alberi frondosi di cui si proibiva il taglio. Nell'imminenza della prima guerra mondiale l'altopiano fu militarmente occupato per la sua posizione strategica a difesa della valle del Piave; tra 1909 e 1915 furono realizzati imponenti lavori di fortificazione: caserme, batterie corazzate, trincee, osservatorio, scuderie, depositi, teleferica, mulattiere e strade di collegamento.

STRADA DEL GENIO

 Prima tra tutte la STRADA DEL GENIO, 18 km. a pendenza variabile tra 5% e 12-13%, che porta dai 753 metri s.l.m. di Lozzo ai 1880 metri di Col Vidàl con una trentina di tornanti, un paio di gallerie e un ponte. I lavori si protrassero per circa cinque anni tra difficoltà tecniche, controversie e sospetti. Sospetti che coinvolsero ora il capitano e ingegnere Ferdinando G. A. Pecco (1864-1929), il cui operato si dimostrò comunque sempre corretto, ora l'impresario Francesco Chiamulera di Valle, troppo interessato ai motivi strategici dei lavori e accusato, non a torto, di pesanti speculazioni anche a spese dei suoi operai. Dal canto proprio il Comune si fece portavoce delle proteste per gli espropri di terreni privati, abbattimento di piante, danni a boschi e pascoli, per la somma di 1000 lire liquidata con gli interessi dal Genio Militare nel 1914, anno in cui la strada fu completata. Questo manufatto rimane la traccia più fortemente incisa sul territorio di: quella terribile epopea che, tra l'altro, costituì una tappa evolutiva: della cosiddetta arte della guerra, guerra di posizione e logoramento dagli esiti in larga misura affidati alla solidità delle postazioni e all'efficienza dei servizi logistici, oltre che alla capacità di sofferenza degli uomini. I genieri dunque e gli alpini, delle cui fatiche parlano ancora i ruderi disseminati in luoghi spesso impossibili.

RIFUGIO CIAREIDO

 Unico esempio sull' altopiano di riconversione pacifica di un edificio militare è quello del ricovero dei Crepi di Ciaréido (m 1997 slm.). Capofila delle installazioni di prima generazione, l'edificio fu costruito nel 1890 nell'ambito di un programma dell'Ufficio Fortificazioni dell'Alto Piave, che ne prevedeva altri tre d'identica concezione sui Col Cervera, Vidàl e Ciastelìn (1891). Il ricovero alpino n.1, divenuto RIFUGIO CIARéIDO nel 1973, è caratteristico per l'ampia copertura a due falde lunghe ben 7,5 metri con la linea di gronda spezzata da quattro abbaini che corrispondono agli altrettanti moduli rettangolari interni collegati in successione. L'ubicazione al sommo di un'altura a bassa vegetazione, la forma e le dimensioni del tetto, che nasconde quasi completamente la parte muraria, conferiscono alla costruzione l'aspetto di un animale placidamente acquattato, protetto da un generoso mantello e in armonia con il grandioso paesaggio circostante. La guerra: morte e distruzione, anzitutto, di uomini e cose, ma anche negazione di civiltà, che a Lozzo significò dispersione (invasione austriaca del 1917-18) del materiale raccolto dal maestro Francesco Barnabò negli scavi degli anni 1852, 1871, 1881. Con i reperti archeologici se ne è andata una parte dell'identità del paese, quella degli esordi, che doveva essere riccamente documentata a giudicare dall'abbondanza di tracce presenti sul territorio. Testimonianza questa affidata alla sola tradizione orale, dato che per mancanza di progetti culturali esse furono considerate intralcio dell'attività edilizia in tempi recenti.

CASA CHIAMULERA

 La guerra fu però anche occasione di affari e traffici, che qui si identificarono con le attività di Francesco Chiamulera, la cui potenza economica comprendeva segherie, compravendita di legnami, commercio di generi alimentari, impresa di costruzioni edili e stradali. Emblema di ricchezza e di un certo gusto borghese per l'ostentazione è CASA CHIlAMULERA ora DA PRA FALISSE (1920), ad un tempo abitazione dell'imprenditore e uffici per dirigenti e impiegati. Dell'originaria planimetria resta ben poco, questo vaticano essendo ora diviso tra vari proprietari. Lo spirito dell'epoca è rimasto nella greve decorazione pittorica di un salone al primo piano, adibito forse a fumoir, dal soffitto densamente ricoperto da sensuali figure femminili, amorini, lussureggianti serti floreali trattati con accesi colori; nella fascia perimetrale monocromi con motivi fiorentini rinascimentali racchiusi da forme geometriche.

********

Estrema propaggine dell'abitato nei pressi del Ponte Nuovo, CASA DE MElO, MARTA, ZANELLA ex trattoria con alloggio "Al Ritiro", giace ancora in faccia al sole di mezzogiorno. Malgrado il bell'orientamento, la posizione non è più "amenissima ", all'uscita della tangenziale. Ma i pellegrini diretti al santuario di Loreto e i viaggiatori trovarono qui dall'inizio del Novecento un importante punto di riferimento oltre a 12 camere, ristorante, bar, stallo per cavalli e, più tardi, officina meccanica. Inoltre il proprietario Valentino Marta vi tenne fino al 1935 un laboratorio di scarpe "di ogni tipo: comuni, da lavoro, da montagna, da sci".

 top Back to Top